Con l’ordinanza n. 11154 del 28 aprile 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che è legittimo il licenziamento di un lavoratore in malattia che svolge attività ludiche o fisiche in grado di ritardare o compromettere la guarigione.
La decisione rovescia il verdetto della Corte d’Appello, che aveva ritenuto sproporzionata la sanzione disciplinare, accogliendo il ricorso del dipendente.
Il pronunciamento, destinato a far discutere, si inserisce nell’ambito di quel filone di vertenze giudiziarie basato sui comportamenti illeciti durante il periodo di comporto per malattia, come ad esempio la pubblicazione di determinate foto sui profili Social.
Il fatto: attività rischiosa durante l’infortunio
Nel caso di specie il lavoratore, assente dal 13 luglio al 1° settembre 2020 per un infortunio al braccio destro, era stato sorpreso a compiere – grazie all’azione di investigatori ingaggiati dal datore di lavoro – una “serie variegata di attività” senza alcuna fasciatura o tutore. Secondo i giudici di merito, queste azioni esponevano il lavoratore a un rischio concreto di peggioramento.
Il comportamento violava le prescrizioni mediche, che imponevano riposo assoluto e immobilizzazione dell’arto. Secondo la Corte territoriale, ciò configurava una violazione degli obblighi preparatori alla ripresa dell’attività lavorativa.
I giudici supremi: sì ad attività, ma non se rallenta la guarigione
La Cassazione ricorda che non esiste un divieto assoluto per il lavoratore malato di svolgere altre attività, anche se retribuite. Tuttavia, tali comportamenti non sono irrilevanti sul piano disciplinare.
Secondo la Suprema Corte, scatta il licenziamento in due casi:
- Quando l’attività svolta fa dubitare della reale esistenza della malattia.
- Quando tale attività può peggiorare o rallentare la guarigione, in base alla natura dell’infermità e alle mansioni del dipendente.
Malattia: restano in vigore tutti gli obblighi contrattuali
Durante l’assenza per malattia, il lavoratore non è esonerato dagli obblighi contrattuali. Restano validi i doveri di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede.
La Cassazione ha censurato la sentenza di secondo grado proprio per non aver considerato questi aspetti. Di conseguenza, ha accolto il ricorso dell’azienda, confermando la validità del licenziamento disciplinare.