Dopo tre anni di governo Meloni, i numeri dicono che i conti pubblici sono in equilibrio, ma la realtà economica dei lavoratori è un’altra.
L’Italia cresce poco, gli investimenti industriali non decollano e i salari reali continuano a perdere potere d’acquisto.
Un equilibrio contabile che, secondo economisti e istituti indipendenti, si regge più su fattori esterni — come la crisi francese e la frenata tedesca — che su una reale efficacia delle politiche economiche nazionali.
La riforma fiscale che taglia fuori chi lavora in fabbrica
La manovra 2026 si annuncia come l’ennesimo “gioco delle tre carte” del fisco. Il governo abbassa dal 35% al 33% l’aliquota centrale dell’Irpef, ma il beneficio reale finisce quasi tutto nelle tasche del 40% più ricco dei contribuenti. Per un dirigente d’azienda il risparmio medio è di oltre 400 euro l’anno (cifra poco più che simbolica), per un impiegato circa 120 euro, mentre un operaio metalmeccanico guadagna appena 23 euro.
Dietro la riduzione delle aliquote si nasconde il fiscal drag, cioè l’aumento occulto delle tasse dovuto all’inflazione. L’Ufficio parlamentare di bilancio stima che le riforme fiscali degli ultimi anni compensino l’effetto del fiscal drag solo fino a 32mila euro di reddito. Ma considerando le addizionali regionali e comunali, il limite reale scende a 22mila euro: sotto quella soglia ci sono gli operai, gli addetti alla manutenzione, gli installatori di impianti e buona parte dei tecnici metalmeccanici.
Le classi medie in perdita
Chi lavora in fabbrica, nei cantieri o nelle officine non solo non guadagna, ma perde potere d’acquisto. Le famiglie con redditi fra 22 e 50mila euro chiudono in rosso la partita tra riforme e inflazione.
Oltre i 50mila euro, invece, l’effetto del fiscal drag sparisce e i redditi più alti restano protetti. In sintesi: le classi operaie e tecniche pagano, mentre i redditi alti continuano a salvarsi. Tutto il resto, come dicono gli analisti, è solo propaganda fiscale.


