Sta suscitando un’ondata di indignazione la sentenza della Corte d’Appello di Palermo, che ha stabilito che l’indennizzo morale dovuto a una lavoratrice vittima di molestie sessuali da parte del suo superiore debba essere commisurato alla retribuzione della donna. La notizia, riportata da AgrigentoToday, riguarda il caso di una commessa di Agrigento, assunta con contratto di apprendistato in un centro commerciale, che aveva denunciato il suo capo area per strofinamenti e palpeggiamenti avvenuti sul luogo di lavoro.
Condanna e prescrizione: cosa è successo
In primo grado, l’uomo era stato condannato per violenza sessuale, ma la pena è poi caduta in prescrizione. Tuttavia, la vittima aveva chiesto un risarcimento civile per il danno morale subito. Qui è arrivata la svolta: secondo la Corte d’Appello, l’importo del risarcimento doveva essere proporzionato al reddito della lavoratrice, ritenendo che “l’entità del turbamento interiore sia da correlare anche alla posizione economica della vittima”. Una motivazione che ha scatenato critiche durissime da parte di giuristi e associazioni femminili.
“Come se una donna ricca soffrisse di più di una povera”
Molti commentatori parlano di una violazione del principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. “È come dire che una manager prova più dolore di una commessa precaria”, osservano i legali della vittima. In realtà, il danno morale riguarda la sofferenza psicologica e la dignità personale, non il reddito o il ruolo professionale. Il rischio, secondo gli esperti, è quello di introdurre una “giustizia a due velocità”, dove la sofferenza viene monetizzata in base alla busta paga.
Una sentenza destinata alla Cassazione
Il caso non è chiuso: la difesa della donna ha già annunciato ricorso in Cassazione. La sentenza, destinata a diventare un precedente, apre un dibattito profondo sul valore della dignità personale nel mondo del lavoro e sulla reale tutela delle vittime di strofinamenti e palpeggiamenti nei luoghi in cui la paura spesso vince sul coraggio di denunciare.


